di Federica Pancin
Cosa c’entra il nome di Giovanni Battista Belzoni con le ortensie? Come è possibile che un delicato fiore sia accomunato al gigante padovano, protagonista della prima stagione dell’egittologia?
La storia curiosa è emersa durante una visita alla mostra “Flowers. Dal Rinascimento all’intelligenza artificiale”, allestita al Chiostro del Bramante di Roma fino al 18 gennaio 2026. Tema del progetto espositivo è la rappresentazione dei fiori nell’arte: in un dialogo provocatorio tra opere medievali, rinascimentali, moderne e contemporanee, i curatori hanno dato ampio spazio a realtà aumentata e creatività computazionale per raccontare l’universalità del linguaggio floreale in un percorso estetico, metaforico e sinestesico, che strizza naturalmente l’occhio alla sensibilizzazione ecologica. L’egittologia e il Grande Belzoni non potevano essere più lontani, eppure…

Avido lettore dei libri di Alexander von Humboldt, il celebre naturalista e geografo che ispirò, tra gli altri, Darwin, Thoreau e Allan Poe, von Siebold (1796-1866) possedeva la voglia di mettersi alla prova e la curiosità dell’esploratore. Non sorprende, quindi, la sua ammirazione per le imprese di Giovan Battista Belzoni (1778-1823), l’avventuriero autore di numerose scoperte in Egitto – e vittima di altrettanto numerosi disconoscimenti di merito.
Colossale di corporatura, Belzoni aveva raggiunto la celebrità esibendosi come esotico “Sansone Patagonico” nei teatri di Londra. Esperto di ingegneria e di macchine da scena, era invece giunto in Egitto per progettare un nuovo sistema idraulico per il chedivé, ma non poté rimanere indifferente di fronte alla monumentalità dell’antica civiltà egiziana.
Attivo alla corte di Mehmet Ali, tra il 1816 e il 1819 Belzoni lavorò al servizio del console britannico Henry Salt ed esplorò ogni frontiera della terra dei faraoni. A lui si deve la raccolta di antichità per la prima collezione egiziana al British Museum. Tra i suoi successi si ricordano l’“intrapresa tanto difficile” dello spostamento del colosso del Ramesseo, il primo ingresso nella tomba KV 17 di Sethi I, il dissabbiamento del tempio di Abu Simbel, il trasporto dell’Obelisco di File, la prima esplorazione di Berenice Trogoditica sul Mar Rosso e, non ultima, l’apertura della piramide di Chefren a Giza.
Proprio nella Camera del Sarcofago di questo monumento spicca, a tutto campo, l’autografo di Belzoni, a rivendicazione dell’autorialità dell’impresa. Non sempre, infatti, gli fu dato giusto credito per le sue scoperte (ogni riferimento alla disputa con Bernardino Drovetti a proposito del ritrovamento dell’Obelisco di File è puramente casuale). Ancora oggi, nonostante vari tentativi di riscatto della sua figura, Belzoni non gode a pieno della riassegnazione di un giusto posto nella narrazione delle prime esplorazioni egittologiche.
Insieme a quella dell’avventuriero padovano, anche la storia di Sarah Belzoni (1783-1870) merita di essere raccontata. Di oscure origini, dopo il matrimonio accompagnò il marito in tour per la Gran Bretagna e in Egitto. Il suo diario di viaggio fu incluso come appendice nel Narrative of the Operations and Recent Discoveries within the Pyramids, Temples, Tombs, and Excavations, in Egypt and Nubia, il fortunato resoconto delle imprese belzoniane pubblicato nel 1820.
Ma fu al rientro a Londra che il contributo di Sarah Belzoni fu decisivo: la coppia godette di discreta fama nella buona società londinese grazie al successo ottenuto con l’acquisizione del busto del cosiddetto “Giovane Memnone”, il colosso ramesside trasportato dal Ramesseo che ispirò i versi immortali di Percy Bysshe Shelley. La signora Belzoni collaborò anche alla curatela e all’allestimento della mostra sulla scoperta della Tomba di Sethi I, che ebbe grande successo nella capitale britannica e a Parigi.
Sarah Belzoni affiancò il marito anche nella sua ultima avventura nell’Africa Occidentale. Di stanza in Marocco, attese invano che lui tornasse dalla spedizione alla scoperta delle sorgenti del Niger; Belzoni morì, infatti, in Benin, sulla via di Timbuctù, nel dicembre 1823. Tornata in patria, la vedova dovette affrontare non poche difficoltà finanziarie e cedette parte delle antichità che possedeva, incluso il magnifico sarcofago in calcite di Sethi I oggi al John Soane’s Museum nei Lincoln Inn’s Fields.
Già nel 1827 Sarah Belzoni sembra trasferirsi a Bruxelles – dove vivrà fino al 1857 – con la sua collezione egiziana. Seppure in ristrettezze economiche, la vedova è ben collegata all’editoria locale e a una nutrita schiera di intellettuali, supportata da personaggi vicini al Duca del Sussex e a logge massoniche inglesi, belghe e olandesi. Intrattiene corrispondenza anche con importanti membri dell’Académie royale des Sciences et Belles-Lettres.
Non lontano da Bruxelles, nei Paesi Bassi, le imprese di Belzoni facevano ancora vendere parecchie riviste negli anni 1827-1829. Egli era “il modello per tutti gli esploratori” (E. Warmenbol) e un uomo di scienza intraprendente come von Siebold non poteva rimanere immune all’eco delle sue gesta straordinarie. Nel 1830, quando la capitale belga era agitata dai moti per l’indipendenza del Paese, Philipp von Siebold si trovava a soggiornare a Bruxelles, nel trambusto del suo rientro frettoloso dal Giappone, causato da un increscioso incidente diplomatico che gli era valso l’accusa di alto tradimento da parte del governo nipponico.
Non sono note le vicende di come il botanico tedesco e la signora Belzoni possano avere incrociato le proprie strade, ma vi sono elementi per affermare che “l’ortensia di Belzoni” sia stata così denominata in onore di Sarah. Sebbene la spiegazione non sia stata inclusa nella scheda della Hydrangea Belzonii Siebold & Zucc. nella Flora Japonica, in una nota appuntata su uno degli erbari preparati per la pubblicazione si legge “dixi in memoriam uxoris Belzoni”, ovvero “l’ho chiamata in memoria della moglie di Belzoni” (foto in basso).

Sfortunatamente, l’epiteto della specie è caduto in disuso nella tassonomia moderna, riconosciuto come sinonimo della Hydrangea serrata var. yesoensis (Koidz.) H.Ohba (comunicazione personale di Roderick Bouman). Tuttavia, l’omaggio a Sarah Belzoni di un fiore tanto speciale – che nella cultura giapponese ha valenza simbolica di silenziosità, malinconia e contemplazione – da parte di von Siebold è certamente una storia da riscoprire e raccontare.
Una curiosità: la casa di von Siebold a Leida, oggi Japan Museum SieboldHuis, si trova e si trovava dirimpetto a una delle più importanti collezioni ottocentesche di antichità egiziane, il Rijksmuseum van Oudheden.
Un’altra curiosità: una prima edizione della Flora Japonica di von Siebold figurava anche nella biblioteca privata di Isma’il Pasha (1830-1895), nipote di Mehmet Ali e a sua volta chedivé d’Egitto.
Piccole coincidenze per una mostra sui fiori, ma l’Egitto è davvero in ogni cosa!
Ci sono molti ricercatori che desidero ringraziare per aver contribuito con la loro esperienza a far luce su questa curiosità egittologica: Claudia Gambino (Progetto EgittoVeneto), Kuniko Forrer (Japanmuseum SieboldHuis di Leida) ed Eugène Warmenbol (Università Libera di Bruxelles) hanno accettato di discutere con me della possibile connessione tra Sarah Belzoni e Philipp von Siebold e mi hanno assistito nel reperire bibliografia; Roderick Bouman (Hortus botanicus di Leida) e Hans-Joachim Esser (Botanische Staatssammlung di Monaco di Baviera) hanno risposto con molta celerità e molta disponibilità alle mie domande sulla tassonomia delle ortensie di von Siebold; Wybe Kuitert (Research Center for Japanese Garden Art dell’Università di Kyoto) ha fornito il suo punto di vista e mi ha introdotta alla questione della decolonizzazione negli studi sulla botanica; Alessandro Mantelli (Università Ca’ Foscari di Venezia) mi ha gentilmente spiegato il significato dell’ortensia nella cultura giapponese.
Un ringraziamento speciale va a Mattia Mancini, per gli ottimi spunti di riflessione su questo insolito argomento, per l’incoraggiamento ad approfondire questa storia e per la possibilità di scriverne in questo spazio del suo blog.




